Come è noto, ai sensi dell’art. 1742 c.c., il contratto di agenzia è quell’accordo con cui una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto di un’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una determinata zona.

L’incarico di agenzia ha ad oggetto lo svolgimento di una attività di promozione della conclusione di contratti ma, notoriamente, può arrivare a ricomprendere anche altre attività c.d. accessorie.

Secondo un indirizzo, ormai consolidato, della Cassazione (cfr. ad es. Cassazione Civile del 02/08/2018, n. 20453; Cassazione Civile del 04/09/2014, n. 18690) “la prestazione dell’agente di commercio può infatti consistere in atti di contenuto vario e non predeterminato, tendenti tutti alla promozione e conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente (quali ad esempio il compito di propaganda, la predisposizione di contratti ecc. ecc.) purché permanga il nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione”.

L’attività di promozione e le attività c.d. accessorie devono quindi, nella fattispecie in parola, essere focalizzate sul convincimento del cliente all’acquisto dei beni e servizi offerti dal proponente.

Dall’agenzia si distingue il contratto atipico di consulenza commerciale ovvero quell’accordo con cui un’impresa affida ad un consulente (sovente una società di servizi) l’incarico di individuare (o procacciare) nuovi clienti per aumentare le vendite dei suoi prodotti o servizi oppure quello di studiare nuove strategie commerciali.

Tale fattispecie è ravvisabile allorquando la prestazione oggetto dell’incarico abbia natura “intellettuale” (o “prevalentemente intellettuale”) e non si concretizzi in attività materiali (ad esempio: visite alla clientela, acquisizione degli ordini ecc. ecc.), bensì in una cooperazione non tangibile, costituita il più delle volte da attività di analisi e definizione di strategie nell’interesse dell’impresa committente.

L’una e l’altra fattispecie occupano peraltro territori comuni tant’è che, non di rado, nelle prassi commerciali, taluni elementi come l’esclusiva in favore dell’impresa, l’autonomia del collaboratore, la variabilità del suo compenso in proporzione ai risultati di fatturato, il divieto pattizio di non concorrenza per il periodo successivo alla risoluzione del rapporto, possono connotare entrambe le tipologie contrattuali.

La distinzione delle due fattispecie può risultare poi abbastanza complessa allorquando l’incarico consulenziale venga affidato non ad un libero professionista iscritto ad un ordine (ossia ad un commercialista, un consulente finanziario ecc. ecc.) bensì ad una società avente, nelle attività che connotano il suo oggetto sociale, (anche) quella di consulenza commerciale.

Per stabilire allora la disciplina da applicare al caso particolare potrà rendersi necessario superare, sul piano interpretativo, il tenore delle denominazioni utilizzate dalle parti nel testo contrattuale e verificare, in concreto, quale sia effettivamente l’incarico che è stato affidato contrattualmente al collaboratore.

Nell’ipotesi di contratto misto (ovvero di negozio con causa unica ed inscindibile nel quale si combinano elementi di entrambe le fattispecie) si tratterà poi di stabilire quale sia l’obbligazione economicamente prevalente (cfr. fra tutte Cassazione civile, sez. II, sentenza 12/12/2012 n° 22828) e, in base alla stessa, ricondurre il rapporto all’interno dell’una o dell’altra tipologia contrattuale.

La fattispecie potrà essere ricondotta alla disciplina di cui agli art. 1742 e ss c.c. oppure, diversamente, allo schema negoziale del contratto d’opera (1222 c.c.) o, diversamente, a quello dell’appalto (1665 c.c.).

Ciò ha, come si può intuire, ripercussioni notevoli sul piano economico andando ad riguardare i diritti azionabili dal collaboratore e, soprattutto, le pretese da lui rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto.

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